Con il crescente successo del commercio vegan, il ruolo dell’attivismo vegano dovrebbe cambiare?

Una distinzione che possiamo fare nell’ambito di tutti i tipi di iniziative che stanno avendo un decisivo impatto per gli animali da allevamento, è quella tra iniziative no-profit (attivismo, basicamente) e a profitto (commercio). In questo articolo pongo la domanda se alla luce di degli sviluppi incredibilmente eccitanti avvenuti nel settore privato, il ruolo dell’attivismo non dovrebbe essere ripensato.

E’ da circa vent’anni che sono nel movimento vegano e per i diritti degli animali. Ho fondato un’impresa no-profit nel 2000 e ho visto il sorgere di moltre altre imprese no-profit. Ho visto piccoli gruppi diventare veramente grandi e professionali, a volte con più di 100 dipendenti e con un budget di milioni di dollari. E c’è stato il sorgere dell’attivismo popolare organizzato come Anonymous for the Voiceless, DXE o the Save Movement, oltre a decine di migliaia di vegani ed attivisti che lavorano a livello individuale.

Per molto tempo, ho pensato che queste attività di diffusione ed attivismo da parte di tutti questi gruppi ed individui fossero, se non l’unico, perlomeno il modo più importante di creare un cambiamento a favore degli animali. Pensavo che tutta questa crescita di consapevolezza sulle condizioni degli animali (con volantini, video, siti internet, social media, conferenze, podcast, dimostrazioni, pressioni, ecc.) era un po’ tutto quello che c’era da fare. E sicuramente non ho mai avuto molti dubbi sul fatto che fosse possibile cambiare i cuori e le menti di abbastanza gente.

Un terreno da gioco in cambiamento
Per tutto questo tempo (questi ultimi venti o quarant’anni, o quel che sia) ci sono state anche iniziative commerciali che vendevano prodotti vegani che la gente, vegana o no, comprava. Molte di queste compagnie, comunque, erano tradizionalmente piuttosto piccole e spesso non troppo ambiziose, con decisamente molte di loro che probabilmente credevano che “ciò che è piccolo è bello”. Più o meno negli ultimi cinque anni si sono comunque visti dei nuovi sviluppi importanti nel mondo del business:

  1. Mentre molte delle compagnie più vecchie e tradizionali stanno sicuramente crescendo più velocemente di prima grazie ad una domanda maggiore, molte nuove startup si stanno distinguendo dalle compagnie più vecchie per essere più ambiziose, più moderne, più tecnologiche e spesso meglio sovvenzionate. Pensate a compagnie come Just, Beyond Meat, Impossible Foods, per citare come esempio solo le tre più famose (queste sono americane, ma ce ne sono in molti paesi e di molte dimensioni).
  2. Stiamo vedendo sempre più interesse da parte di investitori in questo campo. Impossible Foods, per esempio, ha finora raccolto circa quattrocento milioni di dollari. La ricerca delle migliori alternative ai prodotti animali sta migliorando sempre più ed è meglio sovvenzionata. Lewis Bollard dell’Open Philanthropy Project ha menzionato i 1,7 milioni di dollari di sovvenzioni (per compagnie che divulgano veramente le loro sovvenzioni) da almeno 55 diversi finanziamenti, che stanno investendo in alternative ai prodotti di origine animale.
  3. Accanto alle vecchie e alle nuove compagnie, adesso possiamo vedere anche grosse e tradizionali compagnie di cibo non vegano o addirittura di carne che entrano in questo campo. Possono farlo in molti modi: sviluppando le loro proprie alternative, acquistando altre compagnie (come ha fatto Danone con Alpro) o investendo in altre compagnie (come ha fatto Tyson con Beyond Meat). Nei Paesi Bassi, c’è una delle primissime compagnie di produzione di carne che ha annunciato che smetterà di produrre carne perché i loro prodotti vegetali adesso rendono abbastanza!

E’ tempo di ripensare al ruolo dell’attivismo?
Non posso essere l’unico a domandarsi se, alla luce di questa esplosione di interesse commerciale nelle alternative ai prodotti di origine animale, il ruolo del movimento di attivismo (della parte no-profit) rimarrà la stessa o dovrebbe cambiare in qualche modo. E non posso essere l’unico a chiedersi cosa, tra l’attivismo e il commercio, avrà il più grosso impatto da qui in poi. Da una parte, ho visto molte persone fare il passaggio dall’attivismo all’imprenditorialità, vendendo burgers dove prima distribuivano volantini, attivisti cominciare un’impresa no-profit principalmente focalizzata al coinvolgimento di imprese (mi viene in mente il Good Food Institute) e altre imprese no-profit che spostano sempre più la loro attenzione verso la sensibilizzazione presso le aziende (Proveg International, per esempio). Qualcuno che è nuovo alla causa potrebbe perfino cominciare subito dal commercio, saltando qualsiasi delle varie tappe dell’attivismo.
Personalmente, sono stato nella parte no-profit e di attivismo per praticamente tutta la mia “carriera vegana” (EVA, Proveg International, CEVA), ma adesso partecipo anche a Kale United, una startup finanziaria che vuole supportare il commercio vegan con finanziamenti vegan.

Mutuo supporto
Quello che gli attivisti principalmente cercano di fare è di cambiare l’attitudine delle persone verso gli animali. Quello che il business principalmente fa è esporre il cibo (e altro) sulle mensole dei supermercati, così che magari la gente lo compri e gli piaccia. Di solito gli attivisti pensano che se si riesce a fargli capire che cosa succede agli animali e perché ciò è importante, le persone cambieranno idea e compreranno quei prodotti.
Ciò potrebbe funzionare, ma noi tutti sappiamo che c’è spesso un grande salto tra cambio di attitudine e cambio di comportamento. Ho scritto numerose volte come un cambio di attitudine (per quanto riguarda gli animali e la carne) potrebbe essere più facile dopo un cambiamento di comportamento, cioè dopo che si è già cambiato, in un qualche modo e per qualsiasi ragione, verso prodotti vegetali. Se questo è vero (e sono convinto che lo sia) si può facilmente vedere l’importanza anche solo di creare buoni prodotti vegani e renderli accessibile ovunque.

Nella situazione migliore, potremmo vedere una sorta di circolo virtuoso, dove quanto più si vede che il cibo vegetale è molto buono, tanto più è facile essere sensibile verso gli animali, e quindi consumare più cibo vegetale, e alla fine diventare vegani (si noti che cibo vegano non buono o un attivismo negativo potrebbe far diventare questo circolo virtuoso in uno vizioso).

Probabilmente né un cambiamento di comportamento, né di attitudine sono di per sé sufficienti a creare un mondo migliore. Le persone potrebbero fare la cosa giusta ma, se hanno l’attitudine sbagliata, il fatto di fare la cosa giusta potrebbe non essere una cosa permanente e potrebbero cominciare a fare le cose sbagliate non appena ciò fosse più facile o economico. Del resto, al contrario, così tante persone hanno la giusta attitudine verso qualcosa, ma non fanno la cosa giusta (sono sicuro che potete trovare molti esempi da soli).

Ecco perché idealmente abbiamo bisogno sia del cambiamento di attitudine (il ruolo principale dell’attivismo) che di quello di comportamento (l’effetto principale del business). Attivismo e business possono supportarsi a vicenda.

In cosa dovremmo concentrarci?
Tuttavia, il fatto che l’attivismo e il business possano mutualmente rafforzarsi non vuol dire necessariamente che essi creino lo stesso tipo di impatto. Anche se probabilmente sono entrambi necessari, è abbastanza possibile che uno abbia un impatto maggiore dell’altro, o che i loro impatti relativi cambino con il passare del tempo. Questa non è solo una domanda accademica o una prova di forza tra imprenditori e attivisti no-profit. Essere consci dell’impatto relativo di entrambe le parti è importante per aiutarci a fare scelte su dove le nostre risorse dovrebbero andare, quali carriere dovrebbero scegliere le persone che vogliono migliorare le vite degli animali, ecc.
Per di più, essere consci dell’impatto di entrambi le parti no-profit e a profitto potrebbe aiutarci a capire come l’attivismo e il business dovrebbero idealmente collegarsi, e a determinare possibili nuovi ruoli dell’attivismo nel contesto di un impatto corporativo in questo campo ancora più grande.

Cambiamento
Non posso fare a meno di avere la sensazione che siano gli imprenditori che stiano ora facendo la parte maggiore del lavoro che prima erano soliti fare gli attivisti. E riesco a capire come in futuro sarà sempre più così.
Ipotizziamo, per un momento, che le imprese continuino a produrre e vendere più prodotti vegani, e che forse la carne in vitro decollerà e avrà successo. Ipotizziamo che il commercio ci aiuti chiaramente ad avvicinarci sempre di più (ma veramente molto) ad un mondo vegano. Che cosa, se mai qualcosa, dovrebbero fare gli attivisti in un caso del genere? Ci sarebbe qualcosa su cui dovrebbero puntare la loro attenzione? Non sono sicuro della risposta, ma qui ci sono alcune possibilità (di cui non ho ancora deciso quale io mi senta più o meno sicuro).

  • Gli attivisti potrebbero lavorare più intensamente nel supportare il commercio
    Per le persone abituate a lavorare in un contesto no-profit, questo potrebbe risultare come una cosa tutta al contrario: non è il commercio, con il suo flusso strutturato di entrare, che dovrebbe supportare, sponsorizzare, fare donazioni alle… iniziative no-profit? Certo, ma anche la direzione opposta funziona. Ci sono molte cose, oltre ad aiutare a creare più consapevolezza e quindi più domanda, che gli attivisti possono fare per le imprese, e così aumentare le possibilità che queste possano avere molto successo (stiamo dando per scontato che i loro successi finanziari combacino con il loro impatto positivo per gli animali). Alcune delle cose che gli attivisti, ed especialmente le organizzazioni no-profit, possono fare per le imprese, includendo in particolar modo le startup, sono le seguenti: creare consapevolezza tra i loro membri e i sostenitori del marchio e dei prodotti; fare crowfunding; aiutare a fare pressione a favore di leggi favorevoli per il commercio vegan (o sfavorevoli per l’industria della carne); fare pubbliche relazioni e comparire sui media; fare causa quando necessario; far assaggiare cibo alle persone durante gli eventi, ecc. Le compagnie ovviamente fanno anche loro molte di queste cose, ma di meno se sono solo all’inizio. In più, ci potrebbero essere problemi di credibilità. Una compagnia ha dei fini commerciali e le ONG a volte potrebbero essere in una posizione più obiettiva per fare pressione.
  • Gli attivisti potrebbero praticamente farsi da parte
    Potremmo scegliere di fidarci del circolo virtuoso di domanda ed offerta, dove una domanda maggiore porta a un’offerta maggiore e così sempre più aumenta la domanda per il fatto che diventa più facile per tutti cambiare sempre più verso una direzione vegana. In questo senso, una volta passato un certo punto, un mondo vegano o praticamente tale diventerebbe quasi inevitabile. L’attivismo dovrebbe quindi concentrarsi sul rafforzare di più questa tendenza, per il fatto che velocizzarla di anche solo un singolo mese significa una riduzione enorme di sofferenza.
  • Gli attivisti potrebbero concentrarsi nel colmare il divario
    I prodotti di origine vegetali potrebbero diventare la nuova norma, ma visto che ci potrebbero sempre essere cose non buone che sono sia legali che redditizie, potrebbe essere che non ci fosse alcuna garanzia che il commercio di per sé abolisse tutti i prodotti animali. Quindi ci potrebbe essere un ruolo per gli attivisti nell’assicurarsi che si compia il 100% della nostra missione e si raggiunga uno stato di affari sostenibile. A questo proposito, è importante che noi aiutiamo a cementificare le nuove norme e pratiche nelle leggi e regolazioni, così che sarà molto più difficile tornare indietro.
  • Gli attivisti potrebbero agire in modo trasversale
    Molti attivisti sono molto preoccupati su come tutto il veganismo stia venendo mercificato ed incorporato nel sistema capitalistico. Per ora sono stato meno anticapitalista che molti dei miei compagni attivisti, perché credo che non ci sia una via alternativa al sistema se vuoi aiutare gli animali nell’immediato. Ma se il nostro progetto riuscisse ad avere molto successo e riuscissimo a rimpiazzare la maggior parte dei prodotti animali con quelli vegetali, allora avrebbe definitivamente senso cominciare a focalizzarci sugli aspetti problematici del capitalismo (non voglio dire che focalizzarci su questo sia completamente inutile o futile in questo momento). Gli attivisti dovrebbero quindi essere sicuri che i prodotti vegani siano buoni sotto quanti più possibile punti di vista. Il fatto che siano di origine vegetale non è tutto, e i prodotti vegani potrebbero, oltre ad essere socialmente ingiusti, anche essere non salutari, dannosi per l’ambiente, ecc. Sarà necessario migliorare il nostro cibo, una volta che la maggior parte sia di origine vegetale. Questo non fa parte delle attività principali di pressione dei talent scout, quindi questo ruolo potrebbe ovviamente essere svolto (ed è svolto) da altre organizzazioni e movimenti. Ovviamente, ci saranno cibi non sani e non sostenibili in altre forme oltre che nel capitalismo, ma è facile vedere come il sistema attuale incoraggi, o non penalizzi, tendenze negative di questo tipo.
  • Gli attivisti potrebbero focalizzarsi sul creare consapevolezza e cambi di attitudine
    Gli attivisti fanno quello che fanno per la causa in cui credono. Gli imprenditori possono essere motivati dalle stesse cause, ma per di più molti di loro sono motivati dal profitto (questo si applica ancora di più agli investitori, sebbene alcuni di loro potrebbero essere impact investor). Non considero le motivazioni incredibilmente importanti in questo momento (per me va bene che le persone facciano le cose giuste per ragioni tutt’altro che ideali), ma sono decisamente d’accordo che se vogliamo un cambiamento durevole, dove i rischi di inversione di marcia siano minimizzati, vogliamo idealmente che tutti abbiano a cuore gli animali. Credo che una volta che la nostra società diventerà per lo più a base vegetale per qualsiasi ragione, sarà molto più facile vedere che gli animali hanno interessi ed avere una regolamentazione che li protegga, così che non ci sia modo di tornare indietro. Comunque sia, ci sarebbe senza dubbio spazio per creare ancor più consapevolezza su questo argomento.
  • Vegani ed attivisti potrebbero considerare di investire i soldi invece di donarli, e passare il loro tempo guadagnando invece di fare attivismo.
    Per il fatto che investire in una compagnia, a differenza di donare a una no-profit, potrebbe avere un rendimento finanziario e per il fatto che delle compagnie stiano facendo grandi cose per gli animali, si potrebbe sostenere che investire è un’opzione migliore che donare (certamente se poi uno sceglie di donare il ricavato dell’investimento). Considerando la quantità di denaro che è investita nel settore privato e che le compagnie ricevono in ogni modo, si potrebbe affermare che un impatto maggiore si potrebbe fare donando, piuttosto che investendo, in questo momento, affermazione fatta anche da Lewis Bollard nella newsletter citata prima.
  • Vegani e attivisti per i diritti degli animali potrebbero cambiare la loro attenzione più verso la sofferenza degli animali selvatici, visto che loro potrebbero essere i primi a considerare questo argomento seriamente.

Alcune conclusioni preliminari
L’attivismo ed il business hanno bisogno l’uno dell’altro. Possiamo ritenere (sebbene non possiamo esserne certi) che con i loro sforzi gli attivisti vegani e per i diritti degli animali hanno aumentato la domanda per le alternative alla carne ed ai latticini (anche se i sondaggi mostrano che i diritti degli animali sono ancora tra gli ultimi posti per quanto riguarda le motivazioni delle persone a comprare le alternative alla carne), così aiutando a creare un mercato per le compagnie. Viceversa, quando vegani ed attivisti raccomandano contro l’uso dei prodotti animali, hanno bisogno di essere capaci di proporre alternative. Più queste alternative sono accessibili e buone, più l’attivismo sarà efficace e convincente. Quindi la relazione è di mutuo rinforzo.

Ci sarà sempre bisogno di attivismo. L’attivismo è principalmente diretto a far cambiare l’attitudine delle persone. Tuttavia questo non è sufficiente, per il fatto che perfino in un mondo dove praticamente ognuno è d’accordo sul fatto che qualcosa non va, continuano ad accadere cose che non vanno bene. Abbiamo bisogno di menti che siano cambiate e alternative accessibili facilmente, ecco dove entra in gioco il commercio.

Alla luce del crescente ruolo che il business sta svolgendo, potremmo dover cominciare a pensare ai possibili cambiamenti del ruolo e dinamica dell’attivismo in futuro. Non ho le risposte a questa domanda, ma sono abbastanza sicuro che la relazione tra attivismo e business dovrebbe essere, in questo momento, principalmente di collaborazione e di supporto, piuttosto che conflittuale.

Quando i produttori di carne salgono sul Veggie Treno – Un’intervista con Imperial Meat Products

“In quanto siamo una marca conosciuta, possiamo attirare i compratori dei nostri prodotti di carne a comprare quelli senza carne”

Era praticamente impensabile un paio di anni fa, ma oggi sempre più produttori di carne stanno scommettendo sulle alternative vegetali. Imperial Meat Products, conosciuta sotto il nome di Aoste, fa parte del gruppo Campofrio, e grazie al suo 18% di azioni è uno dei più importanti giocatori nel campo dei prodotti di carne processata. Ho parlato con il CEO Remco Kok e il Direttore Commerciale dell’Innovazione Thomas De Boes, nei loro uffici vicino a Ghent, in Belgio.

Mi potete spiegare quali sono i vostri piani nel campo dei prodotti senza carne?
Il nostro scopo è di avere solo metà del nostro fatturato dalla carne e l’altra metà dai prodotti senza carne entro il 2025. Ci consideriamo un’impresa di macellai ed artigiani, ma il nostro lavoro non deve per forza essere basato sulla carne come ingrediente. Così abbiamo cominciato a cercare delle alternative. E qualunque sia il tipo di carne che continueremo a vendere, dobbiamo credere in noi stessi.

Che tipo di prodotti senza carne i consumatori possono già comprare da voi oggi?
Abbiamo lanciato affettati vegetariani e spalmabili vegani, e presto lanceremo anche i burger. Stiamo anche lavorando a dei prodotti ibridi (o misti) Le salsicce sono un settore importante per noi ed è perfettamente possibile produrre salsicce che sono solo 70% carne e 30% vegetali. E cerchiamo di fare lo stesso con altri prodotti di carne. Abbiamo sviluppato, per esempio, un filetto di pollo con più del 30% vegetale. Non siamo ancora sicuri su come procedere con tutto ciò: è qualcosa che devi comunicare al consumatore, come una risorsa, o è meglio non menzionarlo affatto? E’ meglio creare prodotti con pezzi visibili di verdure, o facciamo in modo che non si notino? Tutto ciò ovviamente dipende da quello che il consumatore apprezza.

Perché e come avete cominciato a pensare a investire in prodotti senza carne?
Due anni fa, assieme a dei nostri colleghi dei Paesi Bassi e del Lussemburgo, abbiamo fatto un esercizio strategico per vedere dov’era la nostra compagnia. Abbiamo operato in Belgio da sessant’anni e con la nostra marca olandese Stegeman perfino da 160 anni. Il nostro slogan è “più attenzione, più piacere”: vogliamo porre la nostra attenzione in tutto ciò che facciamo, così che il consumatore possa godere al meglio dei nostri prodotti. Ma oggi non puoi solo fare attenzione ai tuoi prodotti o ai tuoi consumatori a spese del pianeta. E’ pensando in questo modo che siamo arrivati a dei nuovi obiettivi, che noi chiamiamo 0 – 50 – 100. Il 50 si riferisce al 50% di carne e 50% vegetale. Lo 0 si riferisce allo 0% di rifiuto: non vogliamo sprecare niente, né il cibo, ma neanche l’energia (e conseguentemente abbiamo investito in un impianto di pannelli solari). Il 100 si riferisce al 100% di trasparenza. Nel nostro settore, succedono molte cose dietro le quinte. Ma ciò non è in sintonia con la nostra visione, o con il mondo com’è oggi. Così, cerchiamo di essere interamente trasparenti in tutto ciò che facciamo.

Ciò potrebbe spingersi fino a mettere telecamere nei macelli, per esempio?
Questo non è qualcosa che facciamo già, ma penso che è dove dovremmo puntare…

La sede centrale di Imperial Meat Products vicino a Gand, Belgio

Ci potete dire qualcosa su come vanno per ora le vendite dei vostri prodotti senza carne?
I risultati sono decisamente positivi per adesso. Rimaniamo sugli scaffali e i venditori vogliono darci addirittura più spazio. Ma non possiamo dire che in questo momento le masse le stiano comprando. Quindi dobbiamo vedere come possiamo creare più visibilità per i nostri prodotti.

Come fate ciò?
Le persone conoscono il nostro marchio e ciò è una risorsa che possiamo usare. Abbiamo bisogno di attirare i clienti che comprano i nostri prodotti di carne verso quelli senza carne. Abbiamo una campagna ora, per esempio, dove diamo un prodotto senza carne quando ne compri uno di carne. O un coupon per un prodotto vegetale sulla confezione dei nostri prodotti tradizionali. E’ anche interessante notare che possiamo consegnare le nostre offerte senza carne a molti macellai con cui lavoriamo. E naturalmente siamo molto più capaci di piccole imprese nel mettere un po’ di budget per il marketing di questi prodotti. Abbiamo delle pubblicità in TV per i nostri prodotti vegetali e c’è un chiosco ambulante solo per loro. Recentemente abbiamo consegnato 3500 assaggi durante un evento di studenti.

Vi piacerebbe alla fine vendere i prodotti vegetali nella sezione della carne?
Sarebbe ottimo, e penso che ci siamo quasi. E’ una questione di tempo. Ci deve solo essere abbastanza gente che vuole quei prodotti. Guarda i prodotti organici: prima erano in una sezione separata del supermercato, ma ora sono diffusi tra tutti gli altri.

Produttori di carne che saltano sul treno vegetale sembrerà sospetto agli occhi di molti vegetariani e vegani. Una delle motivazioni potrebbe essere che la compagnia potrebbe investire il loro profitto dei prodotti senza carne nel dipartimento di carne, così che quelli che comprano prodotti senza carne starebbero contribuendo inavvertitamente a più sofferenza animale.
In realtà, è più la cosa opposta: al momento, è maggiore l’investimento nei prodotti senza carne che il profitto che ne ricaviamo, quindi è parte del profitto dei prodotti di carne che va in quelli senza carne. Ovviamente avremo bisogno di fare profitto in futuro, altrimenti non è conveniente. Ma non siamo dedicati solo alla carne. Non siamo più un’impresa di carne, siamo un’impresa di cibo. Probabilmente cambieremo pure il nostro nome Imperial Meat Products ad un certo punto. In futuro, vogliamo che chiunque compri i nostri prodotti investi in un ulteriore diffusione dei prodotti senza carne.

Circa quattro anni fa, avevate uno spot pubblicitario in TV che prendeva in giro i vegetariani. Che effetto ti fa adesso?
Potrebbe sembrare un po’ modo facile per risponderti ma all’epoca non ero il CEO e non ero d’accordo con quella campagna. In ogni caso, quando vedo ciò che sta succedendo ora nella compagnia… il cambiamento è veramente strutturale, fondamentale, e sono sicuro che la persona che verrà dopo di me non riuscirà a tornare a quell’atteggiamento di prima. Non possiamo più tornare indietro.

Avete delle risorse nel produrre prodotti vegetali che non hanno i produttori degli stessi prodotti ma più piccoli e più tradizionali?
Penso di sì. Le nostre dimensioni sono già di per sé una risorsa. Possiamo investire nel dipartimento di Ricerca e Sviluppo su una scala più ampia. Possiamo usare il nostro equipaggiamento per produrre prodotti senza carne. Possiamo fare molti test. Abbiamo una grande competenza nel lavorare con gli ingredienti di origine sia animale, che vegetale. E ciò va
dalla competenza con i macchinari alla conoscenza dei batteri e via dicendo.

I prodotti senza carne potrebbe diventare persino più redditizi che quelli di carne in futuro?
La carne è venduta troppo a buon mercato ora come ora. E’ diventata una merce e il cibo, specialmente quello derivato da esseri viventi, non dovrebbe mai essere una merce. E’ difficile dire come andranno le cose . Nel nostro caso, abbiamo ancora molti costi ed investimenti, e dobbiamo ancora far diventare questo settore più conosciuto. Ma se riusciamo a produrre su scala maggiore, potrebbe essere molto più redditizio. Specialmente se i costi della carne crescono.

“Il cibo, specialmente quello derivato da esseri viventi, non dovrebbe mai essere una merce.”

Qual è la vostra sfida più grande?
La richiesta. Il consumatore è indignato di molti tipi di cose, ma molto spesso non cambia le sue abitudini. C’è molto battage pubblicitario circa le vendite dei prodotti senza carne, ma noi sentiamo anche altre storie. Per esempio che durante la recente “settimana senza carne” nei Paesi Bassi, le vendite dei prodotti di carne sono aumentati altrettanto che quelle dei prodotti senza carne. L’ONG olandese Wakker Dier ha campagne radiofoniche contro i venditori a basso costo di carne, ma non è chiaro se stia funzionando o no, forse molti consumatori che sentono questi annunci vengono a sapere di questi prezzi bassi e vanno a comprare quei prodotti. Penso che dobbiamo lavorare assieme con i nostri colleghi e stakeholder, perché ovviamente da soli non saremmo capaci di spingere il consumatore in un’altra direzione.

Immaginate che ad un certo punto sarà chiaro che i prodotti di origine animale sono sul punto di scomparire… la vostra compagnia sarebbe capace di adattarsi?
Comunque sia, dobbiamo sempre adattarci, abbiamo bisogno di adattare i nostri macchinari, per esempio. E sì, abbiamo bisogno di essere sempre consapevoli di nuovi sviluppi e di essere sempre pronti in tempo. Ma sono abbastanza sicuro che in questo caso avremo tutto sotto controllo. Non è così difficile, in ogni modo, per una compagnia che produce carne. Siamo decisamente indipendenti dalle risorse. Le cose che facciamo con i prodotti animali, le possiamo fare anche con quelli vegetali. Per i macelli, per esempio, è molto più difficile adattarsi ovviamente.

“Siamo decisamente indipendenti dalle risorse. Le cose che facciamo con i prodotti animali, le possiamo fare anche con quelli vegetali.”

Quindi, con o senza carne, è veramente così importante? Nessuno qui a dei legami emotivi con i prodotti di carne?
No, non c’è differenza. Non per me, per lo meno. In una fabbrica ci possono essere dei colleghi molto specificamente interessati nella carne. Ma alla fine, queste persone voglio avere un buon prodotto. E abbiamo avuto anche un buon feedback interno. I nostri sviluppatori di prodotti sono molto orgogliosi che riescano a fare prodotti vegetali. La vedo come una sfida ulteriore.

Usare un prodotto a base di carne per offrire un buono per un prodotto vegano (in alto a sinistra)

In concreto: recentemente due produttori olandesi di carne, Bobeldijik ed Enko, hanno annunciato che smetteranno di produrre carne o di vendere quel settore, e che da ora in avanti faranno solo cibi vegetali. Riuscite ad immaginare la vostra compagnia fare una cosa simile?
Penso che per il momento è meglio lavorare sia con la carne che con i vegetali. Se ci dovessimo focalizzare solo su quelli senza carne ora, diventeremmo dei giocatori molto più piccoli e con molta meno influenza. Compagnie come quelle che hai menzionato hanno molto meno impatto sul mercato di noi. Se ci riducessimo, lasceremmo molti tipi di cose che potrebbero essere utili. Avremmo molto meno potere finanziario, meno potere di immagine, meno potere comunicativo. Assottiglieremmo la nostra logistica e competenza… e per il momento, proprio perché vendiamo carne, possiamo attirare l’attenzione dei consumatori amanti di carne verso quei prodotti senza carne grazie a quelli con carne. Per di più, in quanto compagnia di carne, siamo in dialogo costante con il resto del settore. Siamo su tutti i tipi di piattaforme dove possiamo esercitare la nostra influenza, e non sarebbe buono lasciarle in questo momento.

Cosa pensate che vi porterà il futuro?
La società è pronta per il cambiamento. Stiamo lasciando un mondo dove la carne è qualcosa di tutti i giorni. Quanto si andrà in questa direzione è qualcosa che dipenderà dal consumatore. La carne potrebbe non scomparire definitivamente, ma qualunque tipo di carne sarà, sarà comunque più rispettosa verso gli animali e l’ambiente. E poi c’è anche la carne in vitro, su cui stiamo puntando gli occhi.

Perché la maggior parte delle persone mangia carne

Negli anni ‘50, lo psicologo americano Solomon Asch riunì al College Swarthmore (USA) partecipanti per un esperimento che ora è ormai famoso*. Gli disse che stava facendo una ricerca sulla percezione, ma in realtà era uno studio sul conformismo e sulla pressione sociale. Ash mostrò ai partecipanti una serie di immagini come questa.

Ogni volta che mostrava un’immagine simile, Asch chiedeva quale linea sulla destra fosse della stessa lunghezza di quella sulla sinistra. I partecipanti dovevano dare la loro risposta ad alta voce e in gruppo. Tuttavia, Ash fece in modo che tutti i membri del gruppo, tranne uno, fossero cospiratori, a cui lui aveva ordinato di dare la stessa risposta sbagliata. L’unico vero ed ignaro partecipante doveva dare la sua risposta dopo gli altri. Con sua grande sorpresa, Asch trovò che un numero incredibilmente grande di persone in questa situazione dava la risposta sbagliata. Tutto ciò lo portò a concludere: “La tendenza al conformismo nella nostra società è così forte che giovani ragionevolmente intelligenti e di buone intenzioni sono propensi a dichiarare che una cosa nera sia bianca”. In alcune situazioni, alcune persone davano una risposta chiaramente incorretta perché pensavano che il gruppo avesse ragione. In altre situazioni, quelli che rispondevano avevano apparentemente paura di apparire come diversi dagli altri oppure non volevano creare problemi.

Non è difficile trasferire queste scoperte al nostro tema. Penso che non sia azzardato supporre che molte persone abbiano la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato nel cibo che mangiano. Possono pensare che vada bene uccidere animali per mangiarli ma credono che quegli animali dovrebbero almeno “avere una buona vita”. Oppure possono pensare che non valga per niente la pena uccidere un animale per averne in cambio del cibo. Ma quando tutte queste persone vedono costantemente attorno a loro che mangiare carne (o prodotti animali) è una cosa normale, allora è persino difficile dare ascolto a quel vago senso di malessere che possono avere, ed è ancora più difficile pensare che qualcosa di veramente sbagliato stia succedendo. Persino tu, anche se fossi vegetariano o vegano, ovvero qualcuno che ha veramente fatto proprio il principio per cui mangiare prodotti animali non vada bene, potresti avere questi brevi momenti di dubbio, domandandoti se sia veramente giusto quello che pensi. Lo scrittore sudafricano e Premio Nobel J. M. Coetzee attribuisce questi pensieri al suo personaggio vegetariano Elisabeth Costello:

È che non so più dove sono. Mi sembra di essere perfettamente a mio agio tra la gente, di avere rapporti perfettamente normali. È possibile, mi chiedo, che tutti quanti siano complici di un crimine di proporzioni stupefacenti? Sono tutte fantasie? Devo essere pazza. Eppure ogni giorno ne vedo le prove. Le stesse persone che sospetto le producono, me le mostrano, me le offrono. Cadaveri. Frammenti di cadaveri che hanno comprato in cambio di denaro. (…) Eppure, non sto sognando. Guardo nei tuoi occhi, in quelli di Norma, in quelli dei bambini, e vedo solo gentilezza, gentileezza umana. Calmati, mi dico, stai facendo di un sassolino una montagna. Questa è la vita. Tutti se ne fanno una ragione, perché tu non ci riesci? Perché non ci riesci?

In parte dipende dal fatto che solo una piccolissima minoranza di persone vede un problema nel mangiare carne o nell’agire in maniera diversa; la maggior parte delle persone spesso non si ferma a pensare consapevolemente che mangiare carne rappresenti una questione morale. Secondo lo psicologo Steven Pinker, una della principali conclusioni dell’epoca d’oro della psicologia sociale è che “le persone prendono spunto su come comportarsi guardando le altre persone”. Per rispondere quindi alla domanda su perché la maggior parte delle persone mangi carne, questa è la risposta che possiamo dare: la maggior parte delle persone mangia carne perché la maggior parte delle persone mangia carne.”

La maggior parte delle persone mangia carne perché la maggior parte delle persone mangia carne.

Da qui, l’importanza della cosiddetta massa critica. Il cambiamento ha bisogno di numeri. Abbiamo bisogno di persone sufficienti per dare voce ai loro dubbi, per rendere pubbliche le loro preoccupazioni, per non fare come tutti, per mangiare in modo diverso in modo che gli altri non pensino più che mangiare carne sia naturale, normale e necessario.

Congratulazioni a tutti voi che non avete paura di pensare diversamente e distinguervi dalla massa!

*Guarda questo video per sapere di più sull’esperimento di Asch.

Tre idee per far provare cibo vegano a persone riluttanti

Se guardate agli indicatori o parametri per misurare il successo che il movimento vegano potrebbe usare, uno molto importante potrebbe essere il seguente:

A quante persone abbiamo dato la possibilità di avere una grande esperienza di cibo vegano?

Quando le persone pensano che il il cibo vegano possa essere buono, ci sono molte possibilità che siano più aperti alle motivazioni del veganismo o all’idea che gli animali da allevamento non siano insignificanti (ho scritto a riguardo in molte occasioni).

Ovviamente molte persone – sia vegani che non – comprano prodotti vegani nei supermercati o provano piatti vegani al ristorante (o a casa) ogni giorno. Quello di cui sto parlando è di raggiungere quelli che non sono propensi a farlo da soli: persone che potrebbero avere pregiudizi verso il cibo vegano (che sarebbe poco interessante, insipido, difficile da preparare ecc.). Visto che non vogliono spendere soldi per prodotti o piatti vegani, come possiamo farglielo provare?

Un modo è quello che in altre occasioni ho chiamato veganismo in incognito e che consiste semplicemente nel non menzionare che un prodotto, o piatto o perfino un ristorante è vegano, così da evitare il pregiudizio. Ma vediamo altre opzioni.

Far sì che le persone assaggino qualcosa di vegano è, ovviamente, logisticamente più complicato che dargli un volantino, mandargli un’email, o fargli guardare un video di un minuto (i normali modi in cui i vegani cercano di far passare il loro messaggio). Devi comprare il cibo, portarlo alla gente, prepararlo, servirlo (e poi idealmente verificare l’effetto e aiutarli a fare i passi successivi). Anche se non possiamo forzare nessuno a mangiare, ci sono vari modi con cui possiamo accorciare la distanza tra clienti riluttanti e una (deliziosa) degustazione vegana.

Se lo guardi dal punto di vista logistico, il modo più semplice è ovviamente che gli stessi produttori offrano dei campioni dei loro prodotti, in luoghi dove molte persone vanno, comprano o mangiano. Potrebbe essere a una fiera, un posto trafficato in città o negli stessi ristoranti e supermercati. Un produttore (o una ditta) vuole vendere quanto più possibile, quindi ha senso che cerchino di far assaggiare i loro prodotti a quante più persone, nella speranza che questi assaggi portino a più vendite.

Tutto questo è molto ovvio, quindi lasciatemi darvi un paio di idee un po’ meno ovvie per far sì che gente riluttante provi un po’ di cibo vegano.

1. Distribuire assaggi vegani in bar, scelti tra il cibo presente sul posto.
Recentemente sono venuto a conoscenza di quello che penso che sia un modo particolarmente efficace di distribuire assaggi: immaginate la mensa di una impresa (o un altro ristorante), dove i clienti (ogni giorno o in certi giorni) la possibilità di mettere un piatto vegano sul loro vassoio, piuttosto che uno carne. Normalmente, le vendite dei piatti di carne sarebbero molto più alti che quelle vegane. Ma se all’ingresso della mensa, mentre i clienti aspettano in fila, ci fossero persone che distribuissero assaggi di piatti vegani (o anche solo l’alternativa vegetale alla carne di un altro piatto, per esempio nugget vegani), la percentuale di piatti vegani venduti potrebbe aumentare di molto. Una persona (un rappresentante di un’impresa che produce alternative alla carne) mi ha detto che fino alla metà dei clienti aveva scelto il piatto vegano! Ciò potrebbe essere fatto sia dagli attivisti vegani, ma anche dalle stesse compagnie di catering. L’aspetto positivo di tutto ciò è che se una o un paio delle grandi compagnie di catering (pensate a Compass, Aramarl, Eurest…) facessero campagne di questo tipo, ciò sarebbe un modo di raggiungere una grande parte della popolazione in modo strutturato. Potrebbe essere fatto tanto in scuole, quanto nelle mense delle imprese. Ad un secondo livello, organizzazioni veg che fanno pressione con fornitori di catering per fare questo tipo di cose, e forse offrendo loro una struttura per la campagna come il Lunedì (o la settimana, o il mese) Senza Carne, potrebbero potenzialmente avere abbastanza impatto, specialmente se stiamo parlando di imprese molto grandi.

2. Promozione di “marche miste”
Con “marca mista” mi riferisco ad una marca o impresa che vende sia prodotti a base di carne che veg. Queste imprese hanno vari mezzi a loro disposizione per convincere i loro clienti – che conoscono già la loro marca – a provare i loro nuovi prodotti veg. Ho visto casi in cui la confezione di prodotti a base di carne ha una pubblicità per una variante vegetariana, che puoi vedere quando rimuovi la copertina a casa, come in questo esempio, della marca tedesca Rügenwalder.

Ma ci sono altre possibilità, come queste (perdonatemi i disegni approssimativi e schematici)

Figura a sinistra: Assaggio gratuito della nostra versione veg!
Figura a destra: Misto di polpette: Carne + Veg
Figura in centro: compra la versione di carne e avrai quella veg in regalo!

Queste idee ovviamente potrebbero richiedere degli sforzi logistici, ed è facile vedere che non sono dirette ai vegani, ma penso che qui ci sia un gran potenziale per raggiungere dei clienti riluttanti proprio là dove conta veramente: nello stomaco.

Le imprese potrebbero avere delle ottime ragioni per provare queste tattiche, visto che per loro diventa sempre più importante ottenere una fetta sempre più grande nel mercato vegano. Una motivazione in più potrebbe essere che in certe situazioni ci potrebbe essere un profitto maggiore sui prodotti veg.

Perdipiù, considerate il valore aggiunto che un’impresa grande e di fiducia ha. Quando i consumatori di carne vedono una versione vegetariana di un prodotto che conoscono e di cui si fidano, potrebbero essere molto più tentati di comprarlo che quando è di una marca che non hanno mai visto prima. Un grafico dell’impresa di ricerche di mercato GFK che ho visto recentemente (e che non metto qui per motivi di copyright) mostrava la penetrazione del mercato (cioè quante persone avevano veramente provato il prodotto) di affettati vegetariani in Germania. Per quanto riguarda la variante veg di una famosa marca di carne, questa non era meno del 48% mentre, per una marca vegetariana più famosa, era solo… un 2%!

3. Attivisti vegani come un esercito di distributori di assaggi
Ci sono molti attivisti vegani che in strada diffondono ai passanti messaggi di tipo morale, servendosi di video, volantini e conversazioni. Tutto ciò è ottimo, ma penso che le interazioni sarebbero sarebbero molto più produttive se ci fosse anche una componente di assaggi. Un nugget vegano (probabilmente uno dei prodotti salati più facili da distribuire) può essere uno spunto da cui partire per una conversazione, può far stare le persone meno sulla difensiva quando si parla della sofferenza degli animali (in quanto capiscono che non c’è molto da perdere), ecc.

Penso che per il movimento di protezione degli animali, ci sono possibilità di organizzare assaggi su una scala molto più ampia di quanto si stia facendo oggi. Potenzialmente, potremmo distribuire decine di migliaia di assaggi vegani ogni giorno, in strada, ai festival ed esposizioni, con o senza un’occasione speciale.

Kane Rogers e Mei Wong, due attivisti australiani, conducono la campagna “The food you choose” (“Il cibo che scegli”) in Melbourne. Questa campagna si concentra sul cercare di far provare cibo vegano alla gente. Kane e Mei hanno abbastanza esperienza nel distribuire assaggi. Gli ho chiesto dei consigli per fare delle buone sessioni di distribuzione di assaggi. Ecco quello che suggeriscono:

Non ditegli che sono vegani… all’inizio.
Etichettare un prodotto come “vegano” per ora sembra che scoraggi ancora molte persone, meglio non menzionarlo in un primo momento. Alcune alternative da mettere sui vostri cartelli potrebbero essere “Cibo sostenibile gratuito” o “Cibo Senza Colesterolo”. Adattatevi a chi avete davanti.
Una volta che le persone avranno provato il cibo, dovreste chiedergli che cosa ne pensano. E’ importante chiederglielo subito, così che non possano cambiare idea dopo.

Fate le grande rivelazione
Fate sapere alla gente che hanno appena mangiato un prodotto 100% vegetale. Alle persone non piace essere ingannate, quindi siate sicuri di non farli sentire degli stupidi che sono stati raggirati. Un modo di farlo è di chiedere alle persone: “Di cosa pensa che sia fatto?”
Le persone potrebbero essere scioccate, quindi ditegli che la maggior parte delle persone non nota la differenza. Questo eviterà che si arrabbino e rinforzerà l’idea che il cibo vegano può essere buono come il “cibo normale.”

Ditegli dove possono comprarlo.
Se volete veramente fare la più grande differenza che potete per gli animali o il pianeta, è importante aiutare le persone a comprare il prodotto loro stesse. Mantenetevi fissi sul vostro obiettivo! Non state parlando dei benefici del veganismo in generale, o di perché si dovrebbe seguire una dieta 100% vegetale in generale (a meno che uno non ve lo chieda, naturalmente). Vi state solo concentrando su questo grande prodotto e dove dovrebbero comprarlo.
Per molte persone, questo potrebbe essere la loro prima esperienza di cibo vegano. E’ molto importante che questo sia un momento felice, positivo, che li faccia andar via con un bel ricordo. Se a una persona non piace il prodotto, o ha una forte opinione sul cibo vegano o il veganismo in generale, che così sia! Non cercate di cambiare la loro opinione. Magari la cambieranno da soli, a tempo debito.

C’è molto potenziale per alleanze strutturali con i produttori di questo tipo di cibo, così che il movimento vegano potrebbe diventare un partner strutturale per loro, e addirittura essere pagato per servizi di assaggio. Immaginate quanti nugget vegani potrebbe distribuire un gruppo come Anonymous for the voiceless, con molte centinaia di capitoli in tutto il mondo!

Conoscete altre idee per avvicinare le persone riluttanti al cibo vegano? Fammi sapere!

Una ragione per cui i vegani non piacciono: a nessuno piace sentirsi immorale

È un mistero per molti vegetariani e vegani: facciamo del nostro meglio per essere compassionevoli e occuparci di tutte le creature senzienti e per questo scegliamo di boicottare i prodotti animali. Non è forse una cosa da ammirare? E allora perché così tanti prendono in giro, criticano o addirittura attaccano i vegani e il veganismo?

Certo, a volte possiamo risultare un po’ fastidiosi, scomodare gli onnivori facendoli aspettare mentre ispezioniamo etichette o bocciare un ristorante quando andiamo fuori a cena, ma questo non spiega l’ostilità e il ridicolo che a volte incontriamo.

In parte, questo è dovuto a un fenomeno chiamato denigrazione dei virtuosi, cioè screditare le persone che hanno motivazioni morali.


Ho cominciato a essere vegetariana per ragioni di salute, poi è diventata una scelta morale e ora è solo per dar fastidio alla gente.

Può essere capitato anche a te: senza che tu abbia detto nulla, gli onnivori a tavola si mettono sulla difensiva incominciando a prendere in giro te e la tua “dieta”.

Perché avviene la denigrazione dei virtuosi? Il problema è che gli altri spesso percepiscono il tuo comportamento (ad esempio, mangiare o essere vegano) come una condanna implicita del loro (mangiare carne). Un comportamento moralmente positivo sembra accompagnarsi spesso a un rimprovero implicito a chi non lo adotta.

Secondo i ricercatori che hanno studiato la denigrazione dei virtuosi, “il rimprovero morale, anche implicito, dà fastidio perché le persone sono particolarmente sensibili alle critiche delle loro posizioni morali (…). A causa di questa preoccupazione di mantenere un’identità morale, le minoranze spinte da motivazioni morali possono essere particolarmente fastidiose per la maggioranza e dare origine al risentimento”. La risposta a questa minaccia alla nostra integrità morale è quindi di denigrare la fonte della minaccia (Minson and Monin).

Semplicemente pensare a come i vegetariani vedono la moralità dei non vegetariani può dare il via all’effetto denigratorio. Quando chi mangia carne anticipa il rimprovero morale dei vegetariani – ad esempio, quando percepiscono che un vegetariano li condannerebbe moralmente – tendono ad aumentare la denigrazione.

Il problema che ci dovrebbe preoccupare di più non è che i consumatori etici (in questo caso, i vegani) si offendano, siano ridicolizzati o trattati male, ma che chi denigra possa essere in futuro meno incline a fare propri tali valori etici. In altre parole, il confronto negativo non offende solo i vegani, ma impedisce a quelli che mangiano carne, per una sorta di auto-protezione – a muoversi verso il veganismo (Zane).

Riassumendo, questo è quello che potrebbe accadere (scenario peggiore).


azione morale > sentimento di biasimo morale > denigrazione > probabilità di cambiamento diminuita > meno animali aiutati

Questo è ovviamente problematico per la diffusione di valori e comportamenti affini al veganismo. Quindi, ecco qui i miei suggerimenti per evitare che i non vegani si sentano moralmente inferiori e, quindi, denigrino i vegani e il veganismo, allontanandosi ulteriormente da noi e dal nostro messaggio.

  1. Non fargliela pesare. Se il senso di colpa e di inferiorità morale fanno allontanare le persone da noi e dal nostro messaggio, non incoraggiare questi stati d’animo con ulteriore biasimo. Non serve a nulla (anche se a volte ci potrebbe sembrare divertente o soddisfacente).
  2. Non usare solo messaggi e argomentazioni morali. Queste possono creare problemi perché incoraggiano la denigrazione dei virtuosi più dei messaggi non-morali. I non-vegani si sentono meno minacciati da persone che hanno una dieta vegetale per ragioni di salute che dai vegani etici. Questo non significa che devi smettere di usare argomentazioni morali, semplicemente che anche parlare di salute (o gusto) può essere strategico e produttivo.
  3. Parla delle tue imperfezioni. Possiamo dire agli altri alcune cose che facciamo e che sappiamo non dovremmo fare, parlare del fatto che non siamo cambiati da un giorno all’altro e abbiamo avuto anche noi bisogno di essere convinti. Possiamo parlare di altri ambiti in cui stiamo incontrando delle difficoltà. È importante mostrare agli altri che non siamo così diversi da loro, non siamo una specie aliena con un livello di moralità e disciplina che non potranno mai eguagliare.
  4. Puoi rendere esplicita la differenza tra l’azione e la persona. Scegliere di non mangiare prodotti animali è una scelta moralmente migliore, ma non significa che le persone che li mangiano ancora siano cattive.

Piuttosto che promuovere denigrazione, allontanamento e una sensazione di impotenza, possiamo fare la nostra parte, promuovendo una relazione con l’altro.

(Leggi molto altro sulla comunicazione efficace nel mio nuovo libro, How to Create a Vegan World).

Fonti
Minson and Monin
Zane

Traduzione di Eugenia Albano

Non osare definirti vegano!

Sentivo di dover scrivere una risposta a un articolo su Ecorazzi intitolato “Se segui una dieta a base vegetale, smettila di definirti vegano!

Il titolo, e in particolare il punto esclamativo, mi ha fatto quasi star male (qui sto solo esagerando un pochino). Il titolo dice praticamente tutto. Probabilmente l’autrice era ben intenzionata (anche se le sue intenzioni potrebbero non essere pure, come succede a tutti noi), ma questo modo di pensare e di comunicare è così improduttivo e dannoso che non saprei da dove cominciare.

L’autrice crede che i vegani salutisti, che come si capisce non vuole chiamare vegani, ma piuttosto “persone che seguono una dieta a base vegetale” o qualcosa di simile, stiano “dirottando” il movimento vegano. Vuole in qualche modo proibire ai vegani salutisti di definirsi vegani. A parte il fatto che dire a qualcuno di non usare una parola risulta fastidioso e antipatico, ostracizzare i vegani salutisti dal “nostro club” è anche molto improduttivo.

Ho scritto molto altro su questo argomento, ma per riassumere il concetto, la domanda di prodotti vegani, qualunque sia la motivazione alla base di questa richiesta, aumenterà la scelta di tali prodotti. Mangiare vegano diventerà dunque più facile, la nostra dipendenza dai prodotti animali diminuirà e diventerà più facile occuparsi dell’etica quando le persone sentiranno di non avere più molto da perdere. I vegani salutisti sono in realtà tra le persone a cui è più facile fare arrivare un messaggio etico. Inoltre, a dirla tutta, molti “vegani etici” (anche se il termine non mi piace) si sono avvicinati a questo percorso da vegani salutisti.

A costo di finire per analizzare troppo la cosa, riporto qui una spiegazione per quel tipo di comportamento e di comunicazione legato al concetto di esclusività che possiamo trovare nell’articolo di cui sopra. La spiegazione è tratta da un libro di testo di psicologia. Lascerò decidere a te se si possa in qualche modo trovare un riscontro. Tieni a mente la dicotomia fra “vegani etici” e “vegani salutisti” quando la leggi.

“Alle persone piace essere associate a termini di identità che per loro sono importanti. Il fatto di essere associate a termini di altre identità, specialmente se sono errate, può suscitare una “minaccia di categorizzazione“. La cosa non ci fa piacere nemmeno quando l’altro gruppo è molto simile al nostro, perché ciò mina l’essenza stessa di quello che il nostro gruppo rappresenta e che ci rende diversi e speciali. In altre parole, tendiamo a essere più sensibili quando l’altro gruppo è in realtà simile al nostro (…). Gruppi troppo simili a quello di cui noi facciamo parte possono quindi mettere in pericolo l’identità specifica del gruppo: ciò rappresenta una “minaccia all’unicità“. Alcuni hanno persino sostenuto che avere un’identità distintiva di gruppo è “ancora più importante che evitare di averne una negativa.”*

Ti suona familiare?

Io ho avuto questo pensiero: alla fine, potrei restare così deluso dai vegani e dal veganismo, da essere il primo (io, un vegano che ha fatto questa scelta per gli animali), ad astenermi completamente dall’usare quella parola (alcune persone dicono che dovrei comunque, visto che faccio cose non vegane!). Un po’ come The Animalist dice qui. Ma il problema è che allora le uniche persone ad usare la parola “vegano” sarebbero quelle più fondamentaliste, e dovremmo ricominciare tutto da capo con una nuova parola. Quindi immagino di non essere ancora pronto a rinunciare alla parola “vegano”, preferendo invece cercare di essere una di quelle persone che la usano in modo razionale, compassionevole, positivo e inclusivo. Vuoi unirti a me?

* Hewstone, M. Stroebe, W. & Jonas, K (2012), Introduzione alla psicologia sociale. Oxford, Regno Unito: Blackwell. (5a ed.)

Traduzione di Elena Holler

Fate attenzione al dogma vegano

Immagina ti chiedessi di crearti un profilo per un sito di incontri online e immagina che ti dicessi che puoi usare solo una parola per descrivere ciò che cerchi in un partner. Quale qualità vorresti avere a tutti i costi?

La mia sarebbe l’apertura mentale. È la qualità che garantisce che in qualsiasi circostanza si possa parlare e avere una buona conversazione, la qualità che aiuta a garantire l’empatia perché indica che si è aperti a sentire qualsiasi punto di vista e a considerare qualsiasi cosa. In breve, è la qualità che garantisce la crescita.

Il contrario di essere aperti di mente è essere dogmatici. In pratica, essere dogmatici è l’attitudine di non mettere in discussione le cose. Una persona dogmatica non lo è necessariamente sotto tutti gli aspetti e su qualunque argomento, ma su alcuni temi specifici.

Se sei un vegano oggi, ci sono grosse probabilità che, come me, tu abbia passato una significativa porzione della tua vita accettando certi dogmi riguardo al consumo di prodotti animali. Eri in una scatola, chiamiamola la scatola del carnismo (un termine di Melanie Joy).

carnism

Stare dentro la scatola del carnismo ed essere soggetto all’ideologia del carnismo ha fatto sì che accettassi dogmi di ogni tipo, come l’idea che mangiare prodotti animali sia naturale, normale e necessario.

Poi, se sei come me, dopo un po’ la luce si è accesa. Hai sollevato il coperchio della scatola e ne sei saltato fuori vegano (forse vegetariano all’inizio, ma non importa).

carnism box

Il fatto è che mi sono accorto – solo dopo diversi anni da vegano – che in un certo senso ero finito in un’altra scatola: la scatola vegana.

vegan box 1

Proprio come avevo accettato in modo dogmatico ogni tipo di credenza prima, ora stavo facendo lo stesso. Pensavo al veganismo nell’unico modo permesso: onorando la definizione decennale. Facevo notare che non appena uno faceva un’eccezione, non era vegano, ripetevo il mantra eterno che quello che conta non è il benessere animale, ma i diritti (e usavo “benessere” come se fosse una parolaccia – ma come è successo?) e così via…

Così, un paio d’anni fa, sono uscito in gran parte da quella scatola e ho cominciato ancora una volta a mettere in discussione le cose. Credo di stare per la gran parte arrivando alle stesse conclusioni di quando ero nella scatola, ma c’è una differenza. È il semplice atto di fare domande ad essere importante, fare domande ci proteggerà dal fondamentalismo, manterrà aperta la nostra mente, ci terrà lontani dal dogmatismo. Il dogmatismo è quello che ci impedisce di migliorare.

E il bisogno di fare domande, di riflettere, di essere consapevoli non ha una fine. È possibile che io mi ritrovi ancora una volta in una scatola. Potrebbe essere chiamata… la scatola dell’apertura mentale, la scatola anti-dogmatica, la scatola pragmatica. Siamo in grado di creare scatole e ideologie a partire da qualsiasi cosa.

Una scatola è meglio di un’altra, ma meglio ancora è non essere in alcuna scatola e mantenere libero il nostro pensiero.

Puoi dare un’occhiata alla presentazione su apertura mentale, razionalità, empatia e positività che ho fatto di recente alla Conferenza Internazionale per i Diritti Animali a Lussemburgo.

Vedi anche: 10 questioni vegane su cui ho recentemente cambiato idea.

Traduzione di Eugenia Albano

Di cosa hanno così paura i vegani?

Pensavo che il mio articolo “Perché essere vegani non è tutto o niente” fosse scritto in modo piuttosto chiaro, razionale e compassionevole. L’ho scritto nella stessa ottica in cui scrivo tutto: invitare più persone possibile a unirsi a noi nel cercare di creare un mondo più compassionevole.

Nonostante questo, oltre ai numerosi commenti positivi e alle condivisioni, l’articolo è riuscito a far arrabbiare certi vegani a dei livelli che mi hanno sorpreso e persino scioccato. Non ti annoierò con i dettagli, diciamo solo che ho ricevuto diversi insulti (qui alcuni esempi, se non mi credete).

Lo trovo piuttosto triste, ma anche affascinante: è possibile che persone che sono dalla stessa parte litighino così intensamente? Come fanno alcuni a trovare così facilmente prove di tradimento in persone che combattono per la stessa causa?

Il mondo è più bello se guardiamo a colori.

Così ho provato a mettermi nei panni di quei vegani arrabbiati e ho cercato di immaginare cosa di quello che avessi scritto desse loro così tanto fastidio.

In primo luogo, sembra che alcune persone abbiano frainteso le mie intenzioni. Come ho detto, scrivo sempre con l’obiettivo di aiutare questo movimento ad essere più efficace nel raggiungere l’obiettivo della “liberazione animale” (o comunque lo vogliate chiamare). Potrei fallire, ma quanto meno questa rimane la mia intenzione. La mia preoccupazione principale non è certo quella di proteggere i sentimenti degli onnivori, o dare alle persone delle motivazioni o delle scuse per continuare ad usare i prodotti animali. Non sarei nemmeno contento di una liberazione animale o un veganismo parziali, al contrario, voglio andare molto più in là della maggior parte dei vegani e sono anche interessato alla sofferenza degli animali selvatici – la sofferenza è sofferenza, che sia inflitta dagli essere umani o no.

E ora, queste sono le paure che noto nelle reazioni delle persone quando suggerisco di essere pragmatici e un minimo flessibili nella nostra definizione del termine “vegan”.

1. La paura che il concetto di veganismo venga annacquato.
È normale che i vegani non vogliano sminuire l’idea di “essere vegano” o “veganismo”. Non vogliono che significhi altro che quello che significa (o quello che credono significhi): prodotti, cibo, consumi, uno stile di vita… che non includa animali. Credo che ci sia la paura di ritrovarsi con un’idea annacquata di questo concetto, dove “vegan” significa “quasi privo di sfruttamento o sofferenza animale”.

Due risposte. In primo luogo, come ho scritto, è un’illusione pensare che uno stile di vita vegan sia uno stile di vita che non infligga alcuna sofferenza a animali umani o non-umani (il fatto che questa argomentazione sia usata da chi mangia carne contro i vegani, non significa che non sia vero). In secondo luogo, dobbiamo aiutare le persone a fare il primo passo, non l’ultimo. Gli ultimi passi, i dettagli, si risolveranno da soli, quando i prodotti animali secondari diventeranno sempre più rari e costosi. Se riuscissimo ad ottenere una società 95% (o anche 75%) vegana non ci sarà alcun ostacolo a colmare le distanze. È inutile preoccuparsi ora degli ingredienti minuscoli e rendere il tutto più difficile, perché potrebbe benissimo impedire alle persone di muoversi.

2. La paura che la gente possa confondere cosa sia vegano e cosa no, e chi sia vegano e chi no.
Se un vegano fa un’eccezione (es. mangia un biscotto non vegano), rischia di confondere le persone e queste finiranno per non sapere veramente che cosa sia il veganismo o, peggio ancora, ci serviranno qualcosa di non vegano! Questa è l’argomentazione. Ciò che posso dire è che se questo è quello di cui ci preoccupiamo in questa fase del movimento, quando 65 miliardi di animali terrestri sono uccisi nell’industria alimentare ogni anno, allora dobbiamo davvero riorganizzare le nostre priorità. Dobbiamo pensare in modo molto più strategico.

3. La paura che i vegani verranno visti come incoerenti se mai fanno qualcosa di non vegano.
Quando per esempio presento il mio argomento delle lasagne, dicendo che per rendere l’idea del veganismo più accessibile farei delle minime eccezioni qua e là in casi speciali, alcuni vegani pensano che questo verrà interpretato come incoerenza (o, nel caso peggiore, ipocrisia). Lasciate che ve lo dica: la preoccupazione per l’incoerenza è prevalentemente nella nostra testa, non in quella di chi mangia carne. Quello che vedono gli altri è una cosa molto molto difficile; mostrare che in qualche caso speciale si possono fare eccezioni, fa sembrare noi e il veganismo più attraenti, non meno. Secondo me, la coerenza è spesso sopravvalutata. Questo non significa che dovremmo fare qualsiasi cosa ci passi per la testa, ma una coerenza al 99% va benissimo.

La questione è se questo tipo di paure siano abbastanza per spiegare le reazioni arrabbiate che ho ricevuto per quel post. Ho l’impressione che per molti vegani non sia in gioco semplicemente la definizione di veganismo, ma qualcosa di molto più profondo: trovo che, da un certo punto di vista, alcune persone percepiscano che una parte molto importante della loro identità è stata messa in discussione. Ne scriverò un’altra volta.

Un’altra cosa piuttosto interessante è che molte delle persone che continuavano a ripetere “o sei vegano o non lo sei” si riferivano ad altri ambiti, problemi, identità, immagine pubblica che a loro volta erano apparentemente bianco o nero. Eppure, in ciascuno di questi casi, ho visto un sacco di grigio. Una persona ha detto che un Cristiano o un Musulmano non è 95% Cristiano o Musulmano. Ma io penso l’esatto opposto: sia in termini della loro fede (mentale) che del loro comportamento (esteriore), le persone presentano diversi gradi di religiosità. Lo stesso vale per l’avere pensieri o comportamenti razzisti: pare che, in un modo o nell’altro, li abbiamo tutti.

Le reazioni spesso meschine mi hanno fatto capire con ancora maggiore chiarezza che essere vegani non è il punto di arrivo e che i vegani non dovrebbero affermare di essere migliori degli altri. Tutti noi possiamo aumentare la nostra compassione, possiamo aprire le nostre menti ad idee che non coincidono con le nostre. Se non siamo mai in grado di leggere, ascoltare, parlare o discutere con compassione, allora abbiamo davvero tanta strada da fare.

E non temere, anche io faccio parte di quelli che hanno ancora tanto da imparare.

Teniamo la mente aperta e crediamo nelle buone intenzioni degli altri.

Traduzione di Eugenia Albano

Prima di disturbare chi mangia carne al ristorante, leggi qui.

Direct Action Everywhere (DxE) è il gruppo che sta dietro alle irruzioni nei ristoranti in cui si mangia carne: un gruppo di attivisti che ha conquistato sicuramente molti titoli sui giornali in seguito all’azione del 30 gennaio 2018 presso il Rare Steakhouse di Melbourne, in Australia, con decine di persone armate di megafoni e cartelloni raffiguranti animali sofferenti. Alcuni vegani plaudono a queste tattiche e vi partecipano, altri le ritengono molto imbarazzanti. Ecco alcune riflessioni sul tema.

Activists disupting people's meal at Rare Steakhouse in Melbourne
Attivisti che disturbano le persone durante il pasto alla Rare Steakhouse a Melbourne

Due ragioni per avviare la rivoluzione
Credo che chi adotta queste tattiche dirette di attivismo lo faccia per due ragioni molto diverse. La prima potrebbe essere la frustrazione nel pensare all’immensa sofferenza e morte degli animali e la corrispondente volontà di velocizzare il processo di consapevolezza. Posso sicuramente comprendere la sensazione che il cambiamento stia avvenendo troppo lentamente.
L’altra ragione sembra quasi l’opposto della prima: negli ultimi due anni abbiamo assistito ad una rilevante copertura mediatica del tema, a prova della crescente popolarità dell’alimentazione a base vegetale: startup vegan che macinano profitti – talvolta grazie agli investimenti provenienti dall’industria della carne -, nuovi prodotti vegan che vanno a ruba appena messi in commercio, persone famose che adottano la dieta vegan, spettacolari tassi di crescita del numero dei vegani, e così via. Presumo che informazioni di questo tipo possano incoraggiare alcuni vegani e portarli a pensare che sia giunto il momento di avviare azioni di questo tipo. La rivoluzione è nelle nostre mani!

Io credo che né la perdurante sofferenza degli animali e la nostra conseguente frustrazione né le buone notizie e il nostro ottimismo ci dovrebbero spingere, in questo momento, a organizzare azioni come le irruzioni nei ristoranti. Non parlo delle tattiche di azione diretta in generale: quando sono ben mirate, non ho nulla da ridire. Ma penso che nel caso specifico l’azione sia fuorviata e non raggiunga l’obiettivo.

“Non dire alla gente che si sbaglia”
Nel testo che segue, parafraserò i contenuti di una sessione del Festival delle Idee di Aspen 2017 intitolato “Per persuadere gli altri, fate attenzione ai loro valori” dei relatori Matthew Feinberg, docente di comportamento organizzativo all’Università di Toronto, e Rob Willer, professore di sociologia e psicologia a Stanford. *La sessione merita di essere ascoltata per intero, ma ad un certo punto uno dei moderatori chiede ai ricercatori se siano in grado di fornire alcuni consigli su cosa non fare quando si vuole cambiare l’opinione di qualcuno.

Sulla scorta del loro vasto lavoro di ricerca, la prima cosa che Feinber e Willer citano è: non dire a qualcuno che la sua morale o i suoi valori sono sbagliati – a meno che l’obiettivo non sia litigare, piuttosto che convincere. I valori morali fanno talmente parte dell’identità di ciascuno che sfidarli si traduce in una minaccia o un rimprovero. E le persone, in genere, reagiscono in maniera difensiva davanti ad una minaccia – un fenomeno conosciuto, in ambito morale, con l’espressione “opposizione morale”. Ho già affrontato una forma di questo tipo di opposizione, la denigrazione dei puri, in base alla quale chi compie buone azioni viene denigrato. Il problema principale a questo proposito non è il ridicolo in cui gli attivisti vengono gettati o il giudizio negativo su di loro, bensì il fatto che, a causa di questa opposizione, ci sono ancora meno possibilità che altre persone si associno al cambiamento. (Un’indicazione in tal senso a proposito dei fatti di Melbourne è l’incremento dei follower del ristorante dopo l’accaduto).

Cosa ci suggeriscono quindi i due relatori? Consigliano di provare ad articolare diversamente il nostro messaggio, esprimendolo nei termini dei valori condivisi dal nostro pubblico. Scriverò di questo in un altro post.

“Non assumere comportamenti estremi”
La seconda cosa che i relatori consigliano di evitare è di comportarsi in modi estremi. Ciò che i ricercatori hanno rilevato in molte proteste e altri tipi di attivismo è che più la tattica è estrema e più è probabile che le persone si allontanino. Feinberg e Willer hanno riscontrato un paradosso: se vuoi attenzione alla tua causa, hai bisogno dei media. Ma il comportamento che è più probabile venga colto dai media è quel comportamento estremo che è più probabile che allontani il lettore o lo spettatore medio, il quale, conseguentemente, sarà meno portato a sostenere la tua causa. I ricercatori aggiungono poi che gli attivisti coinvolti in prima persona in questi comportamenti estremi, quando vengono intervistati, ritengono che queste pratiche siano efficaci non solo per attrarre l’attenzione delle persone (vero) ma anche per persuaderle (falso).

(Nota a margine: molti vegani esterni a DxE sembrano credere, come me, che queste tattiche non siano efficaci – e questa differenza di opinione all’interno della comunità vegan sembra essere di per sé un argomento interessante per i media.)

Sulla pagina Facebook di Melbourne Cow Save – che suppongo abbia co-organizzato la protesta al ristorante – si legge: “Quest’azione non mirava ad educare la gente al veganismo. Si è trattato di un’azione diretta non violenta mirata alla fine dello sfruttamento e dell’uccisione degli animali, volta a spingere i diritti animali nella coscienza pubblica attraverso l’azione diretta non violenta”. Queste persone sono state decisamente capaci di far parlare di sé e del messaggio che portano avanti, ma un tale risultato è da considerarsi necessariamente positivo? Inserire un problema nella coscienza pubblica non equivale a cambiare questa coscienza (e quindi, nel migliore dei casi, i comportamenti). Far crescere la consapevolezza e aiutare a rendere la causa oggetto del discorso pubblico è sicuramente un risultato che conta, ma se a ciò si accompagna una opposizione morale siamo probabilmente lontani dal nostro ideale.

Le mucche non sono gattini
Penso che uno degli errori che gli attivisti di DxE siano portati a compiere sia l’eccessiva sicurezza nell’esistenza dei parallelismi tra la loro causa e altri movimenti di giustizia sociale. DxE fa spesso riferimento alla disobbedienza civile non violenta e all’azione diretta di Martin Luther King o Gandhi, sostenendo – giustamente, secondo me – che queste tattiche siano determinanti nel condurre al cambiamento sperato.

Non nego che si possano imparare importanti lezioni da altri movimenti di giustizia sociale, ma dobbiamo essere coscienti del fatto che il movimento per i diritti animali non si trova nella stessa fase in cui si trovavano i movimenti per i diritti civili quando si usavano quelle tattiche per chiedere la fine della discriminazione razziale, in termini di livello di sostegno pubblico alla nostra causa. Penso che questo tipo di azione diretta verrebbe accolta molto meglio, e avrebbe un impatto maggiore, se riguardasse una causa condivisa dalla maggior parte della gente. Un attivista DxE avrebbe affermato che “Se loro [il ristorante] avessero venduto i corpi di gattini morti e li avessimo fermati, saremmo stati accolti come eroi”. Sì, probabilmente, ma mentre i vegani non vedono differenze tra una mucca e un gattino, in generale il pubblico lo fa.

E’ una buona idea incontrare il pubblico nel punto in cui si trova e non aspettarsi che condivida i nostri valori o li adotti al momento. Irrompere in un ristorante in cui si stanno mangiando dei gattini, ad esempio, sarebbe molto efficace in un paese occidentale in cui la maggior parte della gente condivide l’idea che i gatti siano degli amici, non del cibo. Ma in alcune parti del mondo l’idea di cibarsi di carne di gatto non è vista allo stesso modo, perciò un’irruzione di questo tipo non sarebbe così efficace. Al contempo, disturbare un gruppo di persone che sta mangiando della carne bovina in un paese come l’India, in cui la visione delle mucche diverge molto da quella diffusa nei paesi occidentali, potrebbe invece essere efficace.

Non diamo scuse per non ascoltare
Allora, no: questi attivisti non verranno considerati degli eroi, così come ha affermato il loro portavoce. Il fatto che ciò abbia importanza non è un problema di ego e indubbiamente chi ha partecipato alla protesta non ha alcun problema nel non sentirsi apprezzato. Anzi, gli attivisti potrebbero in parte apprezzare il fatto di essere considerati fastidiosi. Il problema è che noi vegani siamo ancora un piccolo gruppo, potenzialmente in grado di basarsi su un sostegno molto più ampio rispetto a quello che abbiamo ora – anzi, ne abbiamo bisogno. Dobbiamo agire in modo da allargare questo sostegno, anziché inimicarci potenziali alleati. Anche se le cose sembrano volgere al meglio, in qualità di vegani stiamo ancora percorrendo una strada in salita contro la stigmatizzazione, contro chi ci attribuisce ogni tipo di comportamento: saremmo pazzi, arrabbiati, negativi, pronti a fare la predica, perennemente insoddisfatti. Non dovremmo alimentare o confermare questi giudizi (che talvolta corrispondono a verità, ma nella maggior parte dei casi sono falsi) e di sicuro non dovremmo fornire alla gente delle scuse per non ascoltarci.

Potenziali benefici
Detto ciò, lasciatemi essere il più indulgente possibile – ovviamente sto dalla parte degli attivisti – e assumere per un momento il ruolo dell’avvocato del diavolo. Vediamo se è possibile trovare degli argomenti a favore delle irruzioni nei ristoranti e di altre tattiche radicali.

  • E’ possibile che queste tattiche facciano sembrare più avvicinabili e razionali gli attivisti più moderati e gli altri vegani, se messi al confronto con l’elemento radicale (è il cosiddetto “effetto dell’ala radicale”). Questo potrebbe essere positivo. Ma è ugualmente possibile che molti tra coloro che ritengono ancora accettabile cibarsi di animali continueranno ad equiparare gli elementi meno radicali a quelli radicali e, pertanto, a considerare tutti i vegani radicali o estremisti. Non è vero, e non è giusto, ma è anche umano.
  • Una cosa buona che si può dire su DxE (così come su altre forme di attivismo da strada) è che sembra attrarre e reclutare molti attivisti. I vegani che fino a quel momento sono rimasti passivi si infiammano con i demo di DxE e diventano attivisti (la spiegazione relativa a questa leva si trova più avanti). Ed essere un attivista (vale a dire, fare qualcosa di più per gli animali che limitarsi a non mangiarli) è importante. Ma, ovviamente, se nutriamo seri dubbi sull’impatto positivo delle azioni di DxE, l’eventuale presenza di un numero maggiore di persone tra i loro ranghi non sarebbe necessariamente una buona cosa. Se c’è una discrepanza tra le azioni attira-attivisti e quelle efficaci, mi sembra che dovremmo provare ad attirare nuovi attivisti con queste azioni, anche se non ideali, per poi provare a condurli verso forme di attivismo più efficaci, magari organizzate dallo stesso gruppo.
  • Posso anche assicurare che c’è molta incertezza su cosa funziona, cosa funziona meglio e cosa non funziona. E’ spesso difficile misurare l’impatto di specifiche forme di attivismo. Chi difende le tattiche di DxE sosterrà che, nonostante le reazioni molto negative di qualcuno, queste azioni possono piantare dei semi nella coscienza delle persone, semi che potranno germogliare e cambiare le loro opinioni. Lo ritengo possibile, anche se, dato il significativo rischio di alienarsi le simpatie di potenziali alleati, l’onere della prova del funzionamento di queste azioni dovrebbe ricadere su DxE.
  • Infine, sono abbastanza aperto all’idea per cui, un giorno, le irruzioni nei ristoranti potranno essere abbastanza efficaci, anche se personalmente potrebbero non piacermi mai. Posso immaginare che, in un mondo in cui avremo abbastanza gente dalla nostra parte, possa essere utile far capire ai ritardatari la sensazione che… siano, appunto, arrivati in ritardo alle giuste conclusioni. Ma quel giorno non è arrivato.

Il caldo bagliore della solidarietà di gruppo
Un altro vantaggio che queste azioni possono offrire – anche se non sono le uniche a farlo – è quello di fornire energia e un senso di appartenenza, nonché accrescere la coesione di gruppo. Lasciatemi tornare per un attimo a Feinberg e Willer: alla domanda su cosa si ottiene quando ci si unisce ad altre persone che condividono i propri valori, rispondono così – e credo che ciò parli a molti vegani- :

Si ottengono molte cose quando ci si lega a persone moralmente simili e si esprimono giudizi morali sulle stesse cose che si ritengono sbagliate e che dovrebbero essere condannate; si ottiene molto incontrando la solidarietà altrui e lodando assieme ciò che si ritiene moralmente encomiabile. Si può sviluppare un senso di solidarietà di gruppo di ordine morale, che è qualcosa di potente (…) Riunirsi ad altre persone che la pensano allo stesso modo e ritrovarsi a celebrare questa comunanza nel profondo delle convinzioni comuni regala sensazioni molto forti. I valori delle persone sono, per definizione, ciò in cui si crede più nel profondo di sé: si può combattere e morire per difenderli. Perciò, quando ci si unisce celebrando questi valori e condividendoli, discriminando tra chi crede in loro e chi non li condivide, è possibile vivere un’esperienza fortemente trascendente, in grado di generare sensazioni profonde di fiducia all’interno del gruppo. Non è strano, né sgradevole che ciò accada: le persone sono spinte verso un’esperienza di questo tipo.

Perciò, non è sbagliato, né spiacevole provare queste sensazioni e, specialmente in un mondo in cui poche persone sono d’accordo con noi, è normale cercare le conferme di chi ha le nostre stesse idee. Ma dobbiamo fare attenzione al fatto che il caldo bagliore che riceviamo dal fare attivismo non ci renda ciechi di fronte al reale impatto delle nostre azioni.

In altre parole, dobbiamo fare attenzione a non confondere il sentirsi bene con l’agire bene.

Vuoi leggere di più riguardo a strategia vegana e comunicazione? Consulta il mio libro How To Create A Vegan World.

*Anche se cito da un podcast, in cui, ovviamente, parla solo uno di loro alla volta, cito entrambi, Feinberg e Willer, non potendo distinguere tra la voce di uno e quella dell’altro.

 

Traduzione di Roberta Seclì

Perché essere vegani non è tutto o niente

Ecco un’altra cosa in cui mi imbatto spesso:

Essere vegan è come essere incinta: o lo sei, o non lo sei.

Ha senso, se non ci pensi troppo. Perché quando ci pensi bene, smette di avere senso, da diversi punti di vista.

Questo tipo di visione in bianco e nero ha due problemi, il primo è strategico, l’altro è concettuale.

Il primo è che presentare l’essere vegano come qualcosa che sei o non sei, senza vie di mezzo, non è strategico. Ne ho già scritto in passato: far sembrare il veganismo una cosa binaria, significa escludere tutti quelli che vogliono unirsi per una parte anche consistente del viaggio. Tecnicamente è corretto classificare una persona che è vegana al 99,5% (diciamo che mangiano una fetta di torta non vegana a casa della nonna una volta l’anno) come non vegana, ma ovviamente questa persona è molto più vicina all’essere vegana che a non esserlo (o essere onnivora o vegetariana).

In secondo luogo, esiste una zona grigia, dove non è chiaro se l’uso o il consumo di certi prodotti o ingredienti escluda di fatto qualcuno dall’essere definito vegano. Proprio così, che cosa è vegano e cosa no non è del tutto chiaro e probabilmente è più un gradiente che altro.

Donald Watson, fondatore della Vegan Society nel Regno Unito, ha definito il veganismo una filosofia e uno stile di vita che cerca di escludere – per quanto possibile e pratico – ogni forma di sfruttamento o crudeltà verso gli animali per cibo, abbigliamento o altri scopi.

La condizione “per quanto possibile e pratico” è importante. Lascia spazio per una zona grigia e per la soggettività. Alcuni vegani pensano che quello che è possibile e pratico sia molto chiaro. Evitare una fetta di torta una volta l’anno è decisamente possibile e pratico: basta dire di no alla nonna, giusto?

Ma ciò che è possibile e pratico per una persona potrebbe non esserlo sempre per un’altra e non dovremmo cercare di decidere per gli altri che cosa è possibile e pratico per loro. Se non sei d’accordo e credi che quello che tu ritieni possibile e pratico lo sia per tutti, prova a immaginare una persona che ha studiato e applica attivamente le 320 pagine del libro Veganissimo. Che cosa risponderesti se ti dicesse che trova assolutamente possibile e pratico evitare tutte quelle centinaia di pagine di ingredienti problematici?

Quindi no, essere vegan non è come essere incinta. Così come i crudisti si dicono che lo sono al 70% o all’80%, lo stesso è possibile con l’essere vegani.

Qualcuno sottolineerà che il veganismo (al contrario del crudismo) è più che una dieta, cosa ovviamente vera, anche se la dieta ne è una grossa parte. Nel senso che il veganismo è anche una filosofia, un’etica, uno stile di vita, è una questione di tutto o niente, potrebbero obiettare queste persone. O rispetti i diritti degli animali, o no, direbbero loro.

Ma è davvero così? Prova a pensare al nostro comportamento verso le persone. Probabilmente nessuno di noi rispetta i diritti di tutte le persone sempre e comunque. La maggior parte di noi sono gentili e compassionevoli solo alcune (si spera quasi tutte le) volte. Spesso facciamo errori.

Dire che essere vegano o rispettare gli animali nei tuoi consumi e nei tuoi comportamenti è una questione di bianco o nero è chiedere una perfezione che ci è aliena. Possiamo solo cercare di essere sempre migliori. Non c’è un “lì”, non c’è un punto di arrivo. Ci siamo solo tutti noi, che ci muoviamo in una certa direzione e, si spera, portandoci dietro quante più persone possibile.

Vedi anche la mia risposta alle reazioni su questo articolo: Di cosa hanno così paura i vegani? (in inglese).

Traduzione di Eugenia Albano